In questo momento, nessuno capisce il nostro dolore meglio di quanto facciamo l’un l’altra. Il mio ex marito ed Io ci stiamo aggrappando a tutto ciò che ci è più familiare: noi due, i nostri figli, la nostra famiglia.

Mya Guarnieri

Giovedì 9 Novembre 2023 15:00 CET

È un Lunedì pomeriggio (appena due settimane dopo il 7 Ottobre) e sto vagando da qualche parte, al di fuori di Me; dato che sto insegnando nella classe del mio corso settimanale di multimedia, all’università. Ascolto me stessa, mentre faccio battute e rispondo alle domande degli studenti. Vedo me stessa, mentre sorrido. Ma, quando guardo le mie braccia e le mie mani, mentre ripongo le mie cose a fine lezione, stento quasi a riconoscere il mio stesso corpo.

C’è quel familiare tono tra il color pesca e il dorato, che la mia pelle ha preso dal sole di Tel Aviv molti anni fa e che ho portato via con me negli Stati Uniti. E, ancora, non riesco a dare un posto a queste particolari braccia e mani. Ma il telefono, il telefono è familiare. Dopo aver finito di salutare anche il mio ultimo studente, lo tiro fuori dalla mia borsa e leggo gli ultimi messaggi.

Il mio ex-fidanzato di Tel Aviv (un israeliano vegano, pacifista e anti-sionista) mi dice che sta cercando una pistola taser per proteggersi. Un altro amico, un giornalista e fotografo, che vive nel nord (non molto distante da dove Israele ha avuto uno scontro a fuoco con Hezbollah), è in cerca di un giubbotto antiproiettile. Lui sta andando in giro con un’ascia nel retro della sua macchina, aggiunge, puntualizzando la frase con l’emoji che ride fino a piangere. Mando un messaggio a una mia lontana cugina di Pardes Hanna, una tranquilla città sita tra Tel Aviv e Haifa, chiedendo di lei e della sua famiglia. Contatto anche uno dei miei più cari amici, che vive a Eilat, una città che sarà presto sotto attacco dei missili dallo Yemen. In tutto il Paese, tutte le persone che amo di più sono terrorizzate. Le lacrime iniziano a scorrere copiose sulle mie guance, i miei occhi si bagnano di nuovo incontrollabilmente, come succede ormai da settimane. Poi guardo le notizie e vedo che, il Paese in cui ho vissuto per quasi un decennio, il Paese in cui sono diventata l’adulta che sono oggi, lo Stato, di cui sono cittadina, sta massacrando i Palestinesi a Gaza e migliaia di civili stanno morendo.

Sono israeliana e il mio ex-marito e i nostri due figli sono palestinesi. La sera del 7 Ottobre è stata l’ultima volta che sono riuscita ad andare a fare la spesa. Da allora, Mohamed, il mio ex marito palestinese, ha raccolto confusamente il cibo appena sufficiente, per continuare a sfamare i nostri due bambini, di sette e sei anni. Non solo Mohamed ha iniziato a fare la spesa senza alcuna discussione, ma ora vive di nuovo con noi, nonostante il fatto che siamo divorziati. Dall’autunno del 2022, Mohamed ed Io stiamo cercando di seguire un accordo per la custodia dei figli, a cui ci si riferisce talvolta con il nome “nido di uccello”. In questo accordo, si stabilisce che i figli rimangano a vivere in un posto e che i genitori entrino ed escano a turno, facendo in modo che i figli restino sotto lo stesso tetto tutte le volte, ma, al tempo stesso, assicurandosi che i genitori non siano obbligati a fare altrettanto. La piccola casa che Io condivido con i nostri figli, il nostro cane e il nostro gatto è servita da “nido” o “casa base”. Prima del 7 Ottobre, Mohamed viveva con suo fratello per la maggior parte del tempo.

Veniva a stare con i bambini, quando Io ero fuori città per lavoro o nel raro caso, in cui Io fossi via per svago. La nostra separazione è stata, in buona parte, amichevole. Occasionalmente, ci sono state anche cene e pigiama party in famiglia. Ma, alla fine, lui tornava sempre da suo fratello. Da quando la guerra è iniziata, però, ci siamo quasi risposati.

In questo momento, nessuno capisce il nostro dolore l’uno meglio dell’altra. Nel mezzo del nostro dolore condiviso, entrambi cerchiamo e ci aggrappiamo a ciò che ci è più familiare: noi due, i nostri figli, la nostra famiglia. Il 6 Ottobre stavo concludendo un viaggio di lavoro nella zona di Seattle. Ansiosa di tornare a casa dai miei figli e preoccupata di perdere il volo, mi sono svegliata nel cuore della notte. Quando ho preso il telefono per controllare l’ora, ho visto una notifica del mio ex ragazzo, che è rimasto uno dei miei amici più cari: “Nel caso te lo stessi chiedendo…”, mi scrisse lui in ebraico, “Sto Bene!” Oh Dio! Sapevo che dovevo controllare le notizie. Non potevo credere a quello che ho visto.

Dopo essere arrivata all’aeroporto di Seattle alle 6:00 del mattino, ho chiamato Mohamed, che si era appena svegliato. “Hai visto cosa è successo a casa?”, ho chiesto. “Sì”, ha detto, “Le cose si stanno mettendo male!” “Mettendo male?!” Mi sono infuriata! “È già orribile!” Scene terrificanti mi hanno attraversato la mente: persone nascoste nelle loro case, che inviavano frenetici messaggi WhatsApp ai propri cari: “Sento sparare!” e gli addii strazianti espressi tramite messaggio: “Ti amo!”. Ma sapevo cosa intendeva Mohamed: le cose sarebbero andate male per i palestinesi.

Gli ho detto che aveva ragione, perché anch’io temevo la risposta di Israele. Sapevo che la brutalità dell’attacco di Hamas avrebbe dato “carta bianca” al governo israeliano; un senso di assoluta immunità, per fare qualunque cosa diavolo volesse a Gaza. E, certamente, avremmo visto una sorta di repressione in Cisgiordania, così come violenti atti di vendetta. Qualunque cosa fosse accaduta, sapevo che sarebbe stato un disastro per entrambe le parti. Un pensiero egoista mi attraversava la testa: “Non torneremo mai più a casa…” La famiglia di Mohamed vive a Ramallah, dove io e Mohamed ci siamo incontrati per la prima volta.

Era il 2011 ed ero in visita, per riportare la storia sul tentativo dell’Autorità Palestinese di migliorare il suo status alle Nazioni Unite. Lui era un giornalista; il mio arabo era debole e avevo bisogno di un traduttore. Un amico ci ha messo in contatto e abbiamo percepito subito la scintilla tra noi. All’epoca vivevo a Tel Aviv, ma quando abbiamo iniziato a frequentarci nel 2013, mi ero trasferita a Gerusalemme e insegnavo in un’università palestinese in Cisgiordania. Nonostante il fatto che il mio lavoro professionale e la mia vita personale fossero sempre più radicati tra i palestinesi, il nostro corteggiamento fu teso. Il padre di Mohamed era stato membro dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Gli israeliani lo avevano arrestato, torturato e deportato dalla Cisgiordania alla Giordania alla fine degli anni Settanta. La famiglia era riuscita a tornare dall’esilio forzato solo nel 1997, diversi anni dopo la firma degli “accordi di Oslo”.

Quando Mohamed disse a suo padre che intendeva sposare non solo una donna ebrea, ma anche una che avesse la cittadinanza israeliana, suo padre rifiutò l’unione. Non potendo vivere insieme nella casa di famiglia in Cisgiordania e non potendo vivere insieme legalmente in Israele, abbiamo lasciato il Paese nel 2014 e ci siamo trasferiti in Florida, dove ci siamo sposati e abbiamo avuto i nostri due figli. L’ultima volta che siamo tornati come famiglia è stato alla fine del 2016, quando nostra figlia aveva nove mesi. Non siamo riusciti a entrare tutti insieme come una famiglia.

Per la prima volta da quando è nata, mia figlia ha trascorso un giorno lontano da me, dato che lei e Mohamed hanno viaggiato attraverso l’unico passaggio che Mohamed può utilizzare in quanto cittadino palestinese, ovvero il ponte Allenby, che, guarda caso, è uno dei pochi attraversamenti che non posso usare come cittadina israeliana. Ci siamo così riuniti a Ramallah, dove Mohamed ha registrato nostra figlia come palestinese.

Oggi la nostra situazione, che era già complicata, sembra così impossibile! Volendo portare un senso di normalità nella nostra casa da questa parte dell’oceano, ho preso della spesa mentre tornavo dall’aeroporto: preparati per tacos, quesadillas e guacamole. Quella sarebbe stata l’ultima volta che sarei riuscita ad andare a fare spesa per più di due settimane. Quella sera, Mohamed e io abbiamo cenato insieme, mentre i bambini guardavano un film. Ci siamo seduti a mangiare come una famiglia. Successivamente non si è più parlato della sua partenza. Al mattino abbiamo deciso di dare ai bambini un senso di calma e normalità, quindi abbiamo deciso di portarli in spiaggia. Lungo la strada, Mohamed e io abbiamo avuto una “conversazione in codice”, facendo affidamento su quel poco di arabo, che ho conservato nei nove anni trascorsi da quando abbiamo lasciato la Cisgiordania. Gli ho detto che quello che è successo il 7 Ottobre non era “muqawamah”, ovvero “resistenza”.

È un crimine! E se viene considerata “muqawamah”, bene, allora immagino di non sostenere la resistenza. Va bene, non dire mai più che sono di sinistra. Non mi interessa. Sul sedile anteriore, balbetto in modo incoerente ma sommesso, nel mio strano mix di inglese, arabo ed ebraico (quest’ultimo dei quali Mohamed non capisce appieno), finché nostra figlia non chiede da dietro: “Cosa sta succedendo?”. Ha sette anni. È intelligente. Ha appena finito di leggere l’intera saga di Harry Potter. “C’è una guerra in Israele”, dico. “Oh”, dice. “Chi stanno combattendo?” C’è una pausa. Non posso essere io, non posso dirlo; perché non voglio che lei pensi che li odio, che odio quei “loro” che sono metà di lei; quelli che sento essere anche parte di me. I miei figli sono palestinesi.

Li ho portati nel mio grembo. Durante la gravidanza, avviene qualcosa chiamato “migrazione cellulare”, in cui il DNA del bambino attraversa il flusso sanguigno e gli organi della madre, lì dove può restare per decenni; dicono gli scienziati. Sì, sono cittadina israeliana, ma la Palestina è parte di loro, parte di noi, parte di me. Non ho il coraggio di dire a Farah contro chi combattono gli israeliani. Invece, non dico nulla e mi giro a guardare Mohamed, aspettando che risponda. “Ya baba”, iniziò, guardando nello specchietto retrovisore. “Baba” significa “papà” in arabo e i genitori si rivolgono ai loro figli in questo modo: Mohamed chiama i bambini “Baba” e le madri chiamano i loro figli “Mama”. Lui Esitò. “Mohamed!”, ho incitato. Mi aveva già detto che voleva proteggerli il più possibile da quello che sta succedendo, ma non possiamo non dirgli che c’è una guerra in atto. Dettagli, non ne hanno bisogno. Ma devono conoscere le linee generali. Alla fine dice a nostra figlia: “Ya baba, i palestinesi”.

Sono sollevata che lei non abbia fatto un’altra domanda. Ma lo faccio Io nei giorni successivi. Ho così tante domande e chiedo a Mohamed cose che ora mi vergogno di ammettere. Gli chiedo se appoggia “l’operazione” di Hamas del 7 Ottobre, la strage. Gli chiedo se pensa che questo possa aiutare la causa palestinese. Gli chiedo se la sua famiglia in Cisgiordania; i parenti di sangue dei miei stessi figli, hanno distribuito caramelle, per celebrare la morte orribile e brutale del popolo ebraico, il mio popolo.

Queste domande sono razziste e ingiuste e ne sono disgustata; sono disgustata da me stessa per averle poste. Lo ammetto e mi scuso. Mohamed è compassionevole: “Sei umana”, dice. “Sei arrabbiata.” E sono sconvolta quando il mio feed Facebook si riempie di persone, che condividono le foto dei dispersi e dei morti del party all’aperto e dei “kibbutz”, vicino a Gaza. Mi siedo e leggo tutto ad alta voce a Mohamed, traducendo dall’ebraico all’inglese e implorandolo: “Guarda le immagini…Guarda le persone…” Si siede sul divano accanto a me, mi dà una pacca sulla schiena (un gesto che nostro figlio ha imparato da lui) e mi tiene la mano.

E cerco di essere presente anche per Mohamed, nel suo dolore, mentre piange la perdita di vite palestinesi. Gli metto una mano sulla spalla mentre si siede, leggendo le notizie sul suo telefono. Lo abbraccio, quando non ha parole, ma il suo volto mi dice quanto sia triste. Non è strano che in questi giorni; i più bui che abbiamo mai vissuto in questi dieci anni di vita insieme, siamo più vicini che mai? Per il prossimo futuro, non riesco a immaginare che tutto questo cambi.

Non c’è per nulla ironia in questo: in un momento, in cui i nostri popoli stanno combattendo con più ferocia dal 1948, siamo totalmente uniti. Noi siamo contrari alla morte delle persone. Punto. È la semplice verità. Mettendo da parte l’elevata simbologia politica della nostra unione, con due figli c’è la vita di tutti i giorni da dover gestire. Il frigorifero è diventato un po’ troppo vuoto ed è ora che prenda qualcosa da mangiare. Domenica mi sono seduta e ho fatto una cosa, che non ero mai riuscita a fare in tutti i miei anni di vita da mamma lavoratrice: ho preparato un programma alimentare per l’intera settimana.

È stranamente sontuoso. Coloro che sono morti il 7 Ottobre non potranno mai più gustare un pasto come questo e ora, a Gaza, le persone stanno morendo in massa. Altri si trovano ad affrontare carenze di cibo e acqua. La vergogna mi scuote dentro. Mi vergogno di questa lista della spesa e dei pasti che preparerò. All’interno di “Whole Foods”, con il telefono ancora in mano, faccio un giro nel reparto ortofrutta. E poi un altro. Ho una lista, ma non riesco a prestare attenzione alle parole. Ho messo un peperone rosso nel carrello e qualche avocado.

Il mio telefono squilla e parlo con il mio ex ragazzo a Tel Aviv e, poi, guardo il gruppo WhatsApp di giornalisti internazionali, su cui sono iscritta, che sta diventando terrificante, con resoconti strazianti da Gaza. Alzo lo sguardo, stordita e ricordo che sono in un negozio di alimentari. C’era qualcosa che Mohamed voleva che prendessi. Cos’era? Lo chiamo: “Sono da “Whole Foods”. Cos’era che volevi che Io prendessi?” “Il pollo”, risponde. “Pollo, pollo, pollo…”, mi ripeto canticchiando, mentre faccio un altro giro nel reparto ortofrutta. Pochi minuti dopo, non riesco a ricordare esattamente cosa Mohamed vuole che io prenda. Quindi chiamo di nuovo. Alla fine esco dal negozio.

Carico i sacchetti di carta in macchina e comincio ad allontanarmi. Chiamo Mohamed, che non sospira nemmeno quando risponde, come avrebbe fatto prima del 7 Ottobre. “Aiwa, ya Mya?”, lui risponde: “Sì?” “Cosa ho dimenticato?”. Glielo chiedo, come se fosse lì con me, come se potesse leggermi nel pensiero. “Non lo so. Il pollo?” “Fanculo il pollo!” In un momento normale, questo sarebbe stato divertente o anche fastidioso. Ma, oggi, mi viene da piangere. Piango perché mi rendo conto che mi sto sgretolando; perché la nostra casa laggiù si sta sgretolando. Piango di gratitudine per il fatto che Mohamed tenga me, noi, tutti insieme, nonostante il fatto che abbiamo provato a separarci. “Chi va a prendere i bambini oggi?”, chiedo tra le lacrime. So che abbiamo già avuto questa conversazione una mezza dozzina di volte oggi. “Ci sei?”, la sua voce è paziente come sempre. “Sì, ma chi li porta a cosa?”. Mi ricorda i nostri piani e così corro alla scuola dei bambini; li vado a prendere. Porto nostra figlia a ballare e accompagno nostro figlio al vicino campo da basket, dove Mohamed ci incontra.

Mi dirigo verso un altro negozio di alimentari, questa volta con la parola pollo scarabocchiata con l’inchiostro sulla mia mano disincarnata. Non so cosa ci riserverà il futuro come coppia. So che abbiamo due figli di cui prenderci cura: due bambini che condividono entrambi il nostro sangue e di cui siamo ugualmente preoccupati per le loro speranze, i sogni e il futuro; indipendentemente da come il mondo li definisce e da come potrebbero eventualmente definire sè stessi: israeliani, palestinesi, entrambi o nessuno dei due. A questo punto, per noi non ha molta importanza. Vogliamo solo che siano sicuri e felici, sani e produttivi.

Per quanto riguarda noi due, abbiamo provato a separarci, ma non riusciamo a gestire la cosa. L’analogia non mi sfugge, ma la tragedia che mi circonda, la tragedia che mi ossessiona ormai da anni, è che per poter esistere insieme, in pace, non avevamo altra scelta, se non quella di lasciare la terra che entrambi amiamo profondamente, il luogo in cui ci siamo incontrati, la terra in cui ci siamo innamorati. Il fatto che possiamo esistere in pace insieme è una cosa bellissima.

Ma cosa significa che possiamo esistere in pace insieme, solo al di fuori della terra, che entrambi vorremmo tanto condividere?

Mya Guarnieri è una scrittrice e giornalista attualmente residente nel sud della Florida.

Il suo libro di memorie: “Beyond the Wall: A Love Story”, sarà pubblicato dall’Indiana University Press all’inizio del 2025.

Traduzione di Azzurra Cupini

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